Cristiano Chieppa

Al periodo pugliese, che va dal 1835 circa all’anno della morte, appartengono le opere che Luigi Castellucci realizzò ad Altamura intorno alla metà dell’800. In particolare è possibile documentare la presenza dell’architetto bitontino nella veste di progettista e di direttore dei lavori per la realizzazione del Seminario di Altamura. Contemporaneamente egli è impegnato, nella progettazione e costruzione di un’altra importante opera pubblica: il Palazzo Prelatizio di Acquaviva delle fonti. Ma, mentre quest’ultimo viene progettato e realizzato ex novo, l’edificio di Altamura richiede all’architetto un paziente lavoro di riduzione e recupero, come allora si usava dire, indicando con tale locuzione il complesso di trasformazioni necessarie per adattare un edificio ad una nuova funzione.

In questo caso si trattava di «ridurre» a Seminario un antico convento, quello di San Domenico, non più popolato dai Frati Predicatori che lo avevano fondato e amministrato per tre secoli; questa riduzione comportò, come vedremo, l’ampliamento della antica fabbrica e la conseguente progettazione di porzioni consistenti della stessa. Entrambe le opere gli furono commissionate dal Prelato Giandomenico Falconi, nominato con Bolla Pontificia da Pio IX, prelato Nullius di Altamura ed Acquaviva e Vescovo titolare di Eumenia. Costruzioni coeve dunque, nel corso delle quali l’architetto bitontino divide la sua presenza su entrambi i cantieri a dirigere le maestranze, e non di rado viene interessato a metter mano agli interni delle cattedrali di entrambe le città, nonché ad adempiere a lavori di parziale ristrutturazione del Palazzo Vescovile di Altamura. La storia della chiesa di San Domenico dell’annesso convento è stata tracciata in maniera pressoché completa dallo studioso Tommaso Berloco che ha dedicato numerosissime, pazienti ricerche alle chiese di Altamura. Compendiosamente, attingendo al suo studio su tale complesso pubblicato sul n. 16 di «Altamura/Bollettino dell’Archivio-Biblioteca-Museo Civico» nel 1974, possiamo così riassumere le vicende di questa fabbrica:

Nel 1513, in concomitanza con l’arrivo nella città dei Padri Predicatori Domenicani viene istituita, ad opera del molto Reverendo Padre Baccelliere Fra’ Vito Medio da Montemurro, nel largo antistante la Porta di Matera, una Chiesa dedicata a San Rocco, santo molto venerato perché ritenuto protettore delle popolazioni dai pericoli delle epidemie - in quei tempi non infrequenti - ed in particolare della peste. In quello stesso anno inizia la costruzione dell’edificio sacro che si protrarrà per oltre un lustro, mentre l’annesso Convento risulta ancora in costruzione nel 1571, quando l’Università provvede a rimpinguare le casse con contributi «per la fabbrica che attualmente si fa». La comunità monastica, ricca di numerose personalità quale ad esempio il madrigalista del ’500, padre Angelo Ignannino, prospera per due secoli sovvenzionata - come del resto le altre istituzioni religiose - dalla Amministrazione Cittadina, ed accresce enormemente il proprio patrimonio per effetto di lasciti e donazioni di cui all’epoca gli enti religiosi beneficiavano, quasi sempre in cambio di sepolture cioè di posti dove si potesse - in terra consacrata - riposare dopo la morte.  Si giunge così all’inizio del ‘700 epoca in cui assistiamo ad una radicale trasformazione della fabbrica di cui ci occupiamo. In un clima di grande benessere, conseguente ad alcune ottime annate agricole e di notevole crescita culturale, tanto da rendere possibile l’istituzione, per volontà della sua gente, dell’Università degli Studi, la città, emancipata dalla signoria - bonaria, ma pur sempre onerosa - dei Farnese ha raggiunto una posizione di primo piano nel Regno di Napoli. Sotto il profilo edilizio sembra voler gareggiare con sé stessa nel costruire palazzi e chiese con cupole e campanili che vanno a modificare e a caratterizzare il panorama cittadino, come è efficacemente rappresentato nella veduta settecentesca riportata nell’opera dell’Orlandi, (figura 1).

Nella prima metà del settecento la chiesa di San Rocco, «per essere caduta» viene sostituita da una molto più grande, secondo i canoni di un barocco leggiadro, ariosa, luminosissima, sormontata da una cupola di notevole dimensione e altezza. Non è dato conoscere il nome dell’architetto che progettò quest’opera grandiosa e nello stesso tempo raffinata, probabilmente furono utilizzati modelli già noti ed in uso presso l’ordine dei predicatori. Contemporaneamente dovette essere ampliato, in proporzione, il convento per quello che possiamo dedurre dalla vastità del chiostro (m.19 x 19) e del porticato che lo circonda, la cui altezza misura sei metri all’intradosso delle volte. La data 1716 incisa ad altezza d’uomo nei pressi della facciata (che il Berloco. ritiene apposta in occasione della ultimazione di questa, peraltro mai avvenuta) potrebbe, secondo noi, indicare l’inizio della riedificazione.  Comunque, la veduta di Altamura dipinta su di una volta nell’Episcopio di Matera e risalente al 1709 contiene la raffigurazione del complesso monastico quale era anteriormente alla trasformazione settecentesca (figura 2).

Osservando il particolare che ci interessa - il cui autore, per altri indizi, appare abbastanza scrupoloso e credibile - possiamo ricavarne:

che la chiesa di San Rocco fosse piuttosto modesta, asimmetrica nella facciata, con campanile a vela, e orientata come quella attuale;

che, affiancato, ed un poco arretrato, vi fosse il convento, ad essa proporzionato (a giudicare dal numero delle finestre i vani prospicienti la facciata non sono più di quattro) e quindi con un chiostro di due o, al massimo, tre campate, non visibile nel disegno stesso perché nascosto dalla facciata principale connotata dall’ingresso ben evidente e da due livelli di costruzione.

che l’ala che si protende verso chi guarda il dipinto, con insieme la costruzione con tetto spiovente (baracca) fosse una superfetazione dovuta a necessità di spazi - anche per usi agricoli - scomparsa nel successivo ampliamento settecentesco. Si potrebbe anche azzardare l’ipotesi che questa costruzione non sia afferente al convento, ma un edificio ritenuto minore (la locanda seicentesca, o la chiesa di S. Maria di Loreto o altro ancora) spostato dal pittore sul lato destro della veduta per non coprire la parte più importante di questa e cioè la Porta di Matera. Contrasta con questa posizione l’altra veduta, contenuta nella raccolta Rocca della Biblioteca Angelica di Roma e datata 1584, nella quale un ignoto frate agostiniano rappresenta il convento come un organismo unitario, completo di un vastissimo chiostro con, addirittura, cinque arcate per lato (figura 3).

A spiegare questa apparente incongruenza si può osservare, nello stesso disegno, che anche il convento degli agostiniani viene rappresentato con un chiostro a cinque arcate, laddove rilievi dell’inizio del novecento lasciano intravedere un organismo unitario disposto intorno ad un piccolo chiostro di sole tre arcate. Cinque arcate, sono anche riportate per il monastero del Soccorso dove invece se ne contano quattro ancor oggi. È da ritenere, quindi, che il disegnatore abbia usato lo stesso simbolo - cinque archetti - per tutti i porticati di tutti i conventi, a prescindere dalla effettiva consistenza degli stessi

Così chiarita la situazione per la fase più antica, passiamo a chiederci quale sia stata la effettiva consistenza delle opere realizzate nel corso dell’ampliamento settecentesco del complesso:

per analogia con l’imponenza della chiesa, si deve pensare che in questa fase il chiostro sia stato ampliato sino alla attuale consistenza (quattro arcate per lato).

Tutt’intorno, al piano terreno, secondo l’usato schema della maggior parte dei conventi, il porticato coperto da volte a crociera e, ancora più esternamente, altri locali di ricevimento: astanteria, cucina, refettorio ecc.

al primo piano in corrispondenza del porticato le piccole celle dei monaci affacciate sul cortile interno e, esternamente a queste, corridoi ed altre stanze.

Questa la situazione nella seconda metà del settecento che vede prosperare la comunità monastica, attivamente partecipe della vita della città contribuendo alla sua crescita anche culturale col dare docenti al Regio Studio di cui si è fatto cenno. Sino all’epico 1799 quando anche i frati domenicani nei giorni che precedettero l’assedio e la conquista della città da parte dell’armata detta della Santa Fede comandata dal famigerato Cardinale Fabrizio Ruffo furono coinvolti nei terribili avvenimenti con arresti e fucilazioni perché accusati di essere simpatizzanti per la Monarchia borbonica e quindi nemici della Repubblica Napoletana nella quale invece si identificava la maggioranza della popolazione. Con l’arrivo delle soldataglie provenienti dalla Calabria lo stesso convento fu occupato divenendo il quartier generale degli assalitori. Superati i momenti tragici la comunità monacale riprese a vivere coltivando, per quasi un decennio, oltre che la preghiera e la missione, i suoi molteplici interessi fino al 1808 quando, occupando Gioacchino Murat il reame di Napoli, questi soppresse tutti gli Ordini religiosi, con la finalità - purtroppo puramente teorica - di distribuire, a pagamento, i beni confiscati alle povere popolazioni i numerosi pascoli ed i terreni seminativi venduti a dei signori napoletani. Con la confisca, il grande manufatto, dapprima occupato da soldataglie francesi e poi da miserevoli, andò presto in rovina. Come andò in declino l’intera città con l’economia, la stessa cultura, la ricerca, gli studi e la Università dissestata finanziariamente e con i suoi uomini liberali di ‘belle lettere’ e di talento inquisiti, fuggiaschi, epurati. Nel 1811 un “Progetto per l’organizzazione della Pubblica Istruzione” che individua strategicamente nel Regno quattro Atenei: a Napoli, Altamura, Chieti e Catanzaro, ciascuno dei quali dotato di cinque facoltà non troverà alcun seguito né attuazione. Intanto intorno alle cospicue rendite di beni confluiti e gestiti sotto la denominazione di “Monte a Moltiplico” di appannaggio Vescovile ed in sua mancanza destinate all’istruzione, si accende una annosa accanita disputa senza esclusione di colpi tra il Clero e la Municipalità, che si concluderà dopo che fu prodotto Appello alla Corte di Trani con Atto del 1 gennaio 1889, «con istrumento per Notar Surdi di Altamura del 5 novembre 1890, approvato e reso esecutivo con R. Decreto del 25 Dicembre 1890» col quale i beni del Monte passavano al Comune che s’impegnava devolvere una rendita annua di L. 2.782 per istituire quattro borse di studio a favore di alunni altamurani in carriera ecclesiastica.

Documenti rinvenuti nella Collezione delle Leggi del 1813, evidenziano il Decreto n. 1750: «...così questo Municipio per non essersi dalla Prelatura né offerte né restituite le rendite del Monte a Moltiplico, giusta gli ordini Superiori, e per essere questo Edificio di S. Domenico proprietà Comunale, come dal Decreto del 25 aprile 1813, è nel pieno dritto di riprendersi l’anzidetto locale con tutt’i suoi mobili, adjacenze e pertinenze, e nello stato come attualmente rattrovasi».

Ribadendo così il principio «...che tutte le Amministrazioni di simili Monti sono di loro natura laiche, e che non possono mescolarvisi le persone Ecclesiastiche se non nella qualità di Delegati dal Governo...».

Sembra che uno spiraglio si apra in fatto d’istruzione quando viene diramata una nota ministeriale nel marzo 1815 che parla di istituire un Liceo con o senza Convitto. Di contro e lestamente l’Autorità Ecclesiastica si adopera in tentativi di convertire la Università altamurana in un Seminario clericale conforme agli ordinamenti del Concilio Tridentino e poi più tardi di devolvere le rendite del Monte ai Reverendi Padri della Compagnia di Gesù perché provvedano all’insegnamento pubblico. Aspirazioni d’ambo le parti naufragate sul nascere per ferme opposizioni, che a loro volta tentarono di risollevare le sorti dell’antico Ateneo.

Alle lunghe schermaglie politiche rinfocolate in ogni sede giunge alfine inaspettato l’intervento del ‘riformista’ Papa Pio IX regnando Ferdinando II con sua Bolla Si aliquando del 16 agosto 1848 con la quale sancisce aeque ac principaliter le due Chiese di Altamura e di Acquaviva, esente dalla giurisdizione di ogni Ordinario Vescovile, riconoscendo al Re il diritto di nomina e collazione ed asserendo esservi in Altamura beni ecclesiastici con la rendita di ducati 2000 – scrive Ottavio Serena nelle sue memorie storiche – autorizzava la fondazione di un Seminario ecclesiastico da servire alla istruzione dei preti delle due Chiese.

«Nel Regio exequatur dato a quella Bolla – continua la nota – è vero, fatti salvi i diritti di Regio Padronato e dei luoghi Pii laicali per la Chiesa e Città di Altamura; ma ciò non dimeno Ferdinando II, sordo ai reclami della cittadinanza altamurana, lasciò aprire il Seminario ecclesiastico…».

La stessa Bolla nominava Giandomenico Falconi Vicario di Molfetta, Arciprete–Prelato delle due Prelature, che qualcuno asserisce ‘per interposti uffici’ di suo fratello Stanislao Falconi avvocato generale presso la Suprema Corte di Giustizia, ottenendo che alla Chiesa di Acquaviva fosse unita l’altra nullius di Altamura e pertanto nominato Arciprete mitrato di quelle due Chiese aeque ac principaliter

Considerato un autentico grande Vescovo il cui nome è rimasto inciso nella Prelatura, il Falconi appena arrivato ad Altamura avviò con il restauro della Cattedrale i lavori per il recupero dell’antico Convento dei Domenicani per istituirlo a sede del Seminario Vescovile, incaricando al progetto l’architetto Luigi Castellucci chiamato altresì a redigere contemporaneamente quello del Palazzo Prelatizio ad Acquaviva da erigersi ex novo in uno spiazzo lateralmente al Duomo (d’impianto XII sec. in stile romanico–pugliese) e quindi addossandolo allo stesso. Monumento che a sua volta viene interessato da una serie di lavori di ‘arricchimento’ interno in parte affidati all’architetto bitontino.

Questi, inoltre non manca di essere coinvolto nella stessa fabbrica del Duomo dell’Assunta ad Altamura (la cui vicenda storica ha un suo capitolo a parte), subentrando nella direzione ai lavori di restauro per circa due anni (dall’aprile del 1859 all’ottobre del 1860) all’indomani dell’esonero di Federico Travaglini prima e dell’architetto di dettaglio Corradino De Judicibus poi. In quell’ambito il progettista andrà a disegnare la balaustra in marmo nel Presbiterio, i confessionali nelle navate laterali e la pavimentazione, attendendo alla loro realizzazione con maestranze pugliesi quali gli stuccatori fratelli Conti, il marmoraro bitontino Giuseppe Scala e il napoletano Gaetano Gravone, affidando invece la fusione del ricco cancelletto bronzeo alla ditta Keppy di Napoli.

Dopo aver preso a censo dalla Provincia di Bari la fabbrica dell’ex Convento dei Domenicani con l’Istrumento di concessione stipulato dall’Intendente della Provincia con il Monsignor Prelato Palatino Ordinario di Altamura ed Acquaviva D. Giandomenico Falconi e solennizzato da Notar Certificatore di Bari D. GaetanoCalvani dalla data 5 gennaio 1851, n. 93, reg. a Bari lì 8 t. L., Vol. 158, fogl. 37 col quale:

 

«Sua Maestà il Re Nostro Signore si è degnata ordinare che l’Edificio dell’ex Convento de’ Domenicani in Altamura, di proprietà di cotesta Provincia, venga dato in censo a Monsignor Vescovo di Altamura per addirlo ad uso di Seminario per l’annuo canone di Ducati dieci, e colla l’espressa condizione che debba ritornare alla Provincia nel caso che finisca l’oggetto al quale l’Edificio suddetto viene ora destinato».

 

Si apprestano i lavori, «Ed era un vero spettacolo, veramente nuovo, ed edificante per il popolo» – racconta Mons. Ciccimarra in una sua cronaca – «vedere Mons. Falconi, il proprio Pastore, col grembiule dei muratori davanti, a trasportare tufi e pietre, insieme ad alcuni seminaristi e sacerdoti, […] tanto che ben presto tutte le macerie del vecchio fabbricato furono sgombrate, e gettate le fondamenta del nuovo edificio...» E la fabbrica sorse imponente e maestosa sotto la direzione dell’Architetto Ingegnere Castellucci da Bitonto, «sino a sorpassare» – come si esprime Francesco Terranova,un dotto scrittore altamurano, «i principali edifici della Provincia di Bari. Ed alla costruzione d’un tale edificio tutti concorsero: Capitolo, Clero, Confraternite, Monte a Moltiplico, persone e famiglie private».

Ci chiediamo, a questo punto quale sia l’effettiva consistenza delle opere progettate da Luigi Castellucci per il Seminario, cosa non facile da discernere dato che attualmente l’edificio risulta di molto ingrandito con numerose aggiunte del secolo XX. Ci soccorrono in questa indagine alcuni rilievi di questa fabbrica esistenti nell’archivio dell’ABMC, datati 1901 e provenienti dallo studio di ingegneria di Michele De Nora. Solo cinquant’anni li separano dagli interventi operati dal Castellucci ed è difficile pensare che in tale breve spazio di tempo siano intervenute modificaxzioni sostanziali nella consistenza dell’edificio. Cosicché possiamo ritenere che essi riproducano la situazione esistente alla data del 1850. In quello che rappresenta il piano rialzato, (figura 4) si possono distinguere i seguenti elementi:

il chiostro, corrispondente a quanto ancor oggi esistente:

i locali ricavati murando il porticato ed altri ancora intorno a questi;

la scala monumentale che porta al primo piano;

a sud, due enormi camerate con accesso attraverso due stanze di molto minore ampiezza.

Guardando la pianta del primo piano, (figura 5) notiamo la presenza di

- altre due camerate sovrastanti quelle del piano rialzato

- la cappella progettata dal Nostro e poi adibita ad Aula di Disegno.

 

Per concludere:

sono sicuramente da attribuire al Castellucci:

Il rifacimento della facciata (almeno fino ad un certo punto).

Lo scalone monumentale che porta dal piano rialzato al primo piano;

I quattro dormitori per i seminaristi con relative, antistanti camere per la persona addetta alla sorveglianza

la capella.

la chiusura del porticato con murature munite di finestre.

forse la sistemazione delle cisterne sottostanti il chiostro

 

La facciata

L’edificio, che in quel tempo era in una posizione limitrofa nell’ambito urbano, oggi prende funzione di quinta scenica del giardino pubblico antistante di piazza Zanardelli, (figura 6) ed è adibito a prestigiosa sede del Liceo Classico Statale “Luca de Samuele Cagnazzi” e della stessa antica benemerita istituzione culturale ABMC (Archivio Biblioteca Museo Civico), autentico scrigno e geloso custode della storia della città. È ritmato nel fronte da nove finestre a piattabanda, essenziali e prive di decorazioni di sorta, che si aprono al primo piano. Al pianterreno otto finestre rettangole incorniciate ne seguono la cadenza verticale sulla stessa linea e sul declivio verso destra, due piccole aperture quadrate danno aria e luce ai locali scantinati.

Centralmente invece, il portale sormontato da una balconata predomina la scena che, seppur complessivamente appare carente di incisive attrazioni plastiche, presenta un atipico attico decorato a rombi che insistendo sull’ultimo piano, staglia letteralmente la fabbrica contro il cielo innalzandone il fronte e, raggruppando il tutto, funge da contenimento, quasi a voler abbracciare l’edificio intero. Assieme all’orologio che linearmente lo sormonta, il portale diviene quindi l’episodio fulcro della simmetria in questa compagine architettonica(figura 7).

Posto sulla sommità di cinque gradini è rinvigorito per tutto il suo profilo da bugne lisce che pur nella loro semplicità, denotano un sapiente intervento preparatorio da parte degli scalpellini. Aggetta leggermente prima di condurre all’androne a botte e successivamente al cortile. Possiamo dire che stilisticamente e per l’estrema semplicità la fabbrica ci ricorda – ovviamente in scala differente – il Palazzo Capitaneo di Palese.

Il controllo spaziale della dimensione di facciata è gestito dal solito elemento triplo degli assi delle finestre che contraddistingue il Nostro in diverse sue opere. Mentre in Palazzo Capitaneo la ‘tripletta’ delle finestre dettava la centralità, qui la ritroviamo nell’impaginazione delle ali murarie adiacenti all’asse di simmetrica portale-orologio.Tre finestre identiche ripetute e poi, verso il cantone bloccate da un’altra, provvista di una piccola variante: il balconcino, dal significato estetico più che funzionale, poiché appare solo come elemento di rinforzo della terminazione dell’edificio, a contenimento dell’impaginazione spaziale delle ali murarie di facciata. Il palazzo in origine era privo sul lato destro dell’attuale addizione che oggi altera visibilmente gli oggettivi rapporti tra i tangibili elementi di facciata la compagine urbana.

Verticalmente, la facciata è scandita da un doppio ordine di finestre su un liscio intonaco, inciso unicamente da un cornicione marcapiano dal semplice fascione a sostegno della linea delle finestre. In origine lo zoccolo di attacco a terra era di conci di pietra sbozzati sino all’altezza delle basi di piedritto del portale.

 

L’atrio e le sue adiacenze

Varcato il portone di ingresso, e attraversato un breve androne con volta a botte, sulla destra si accede all’ABMC (Archivio Biblioteca Museo Civico di Altamura), che occupa, tra l’altro un intero lato dell’ex portico scandito da volte a crociera sormontanti le scaffalature lignee. Questo genere di ambiente gira tutt’attorno all’atrio principale quadrangolare dove al di fuori, sulle pareti, le tompagnature degli archi dell’ex-chiostro e i piedritti superstiti, lasciano intravedere la posizione esatta degli stessi rimossi visivamente dalla riduzione eseguita dal Castellucci. Qui un doppio ordine di finestre - arcuate al piano terra e semplicemente rettangolari e collegate da una cornice al primo - movimenta lo spazio e la prima sensazione che scaturisce nell’osservatore è di trovarsi in uno degli innumerevoli cortili delle masserie sparse per la Puglia. Questo a causa del candore del bianco calcino sulle pareti e per lechianchepavimentali lisciate in chiara pietra locale.

 

La scala monumentale

attraverso un arco di accesso impreziosito dal rivestimento in pietra della ghiera, si accede al vano dello scalone che collega il piano terra a quello superiore (figura 8).

Questo elemento ripetuto in molti degli edifici progettati da Castellucci, rispetta in generale il medesimo schema: un ampio e alto vano con doppia rampa (che diviene tripla in Palazzo Gentile e Bitonto) che smonta in una porta ad arco al primo piano che può o meno presentare un pianerottolo balaustrato con affaccio. L’ampio vano è in genere illuminato da finestre sulla parete di fondo o lateralmente, a seconda dello spazio libero sull’esterno della scatola muraria che contiene il tutto.

In molte occasioni si è potuto constatare che lo scalone è impreziosito da balaustre in marmo o ringhiere in ghisa (come in questo caso) di alta fattura dalle quali deriva una l’efficace valore estetico. In altre occasioni lo scalone è per così dire declassato alla sua semplice funzione poiché libero di questi felici episodi decorativi, ma mai privo – come in questo caso – del particolare distintivo delle scale del Castellucci è cioè la comodità dell’alzata dei gradini che permette di compiere l’arrampicata senza alcun minimo sforzo.

Qui il pregevole decoro della ringhiera è purtroppo vagamente offuscato dallo scivolo di sollevamento per i disabili.

 

La cappella

Al piano superiore una serie di ambienti sono adibiti ad aule e laboratori scolastici disposti tutt’intorno al corridoio che li racchiude snodandosi con l’affaccio sul cortile.

Un’interessante variante nella regolarità dell’impianto è rappresentata dalla cappella attualmente adibita a sala conferenze. Vi si accede tramite una sobria porta con timpano che appare letteralmente appiattito dalla recente tinteggiatura che - ci duole constatare - non ha risparmiato nemmeno i gattoni e le mensole che risultano anch’esse private del cromatismo materico della pietra lavorata oramai spogliata della propria naturale essenza (figura 9).

All’interno, pur nella sua esigua essenza, l’ambiente è piacevolmente corredato da cornici che corrono sui pilastri, sulle linee di imposta degli archi e lungo i pennacchi delle volte a vela.

La bicromia dei colori provvede ad ampliare la sintetica spazialità movimentandola; mentre la pavimentazione presenta ampie parti con maioliche originali magnificamente conservatesi e risarcite in alcuni tratti con altre di moderna fattura eseguite in occasione dell’ultimo restauro, che riproducono fedelmente il modello autentico. Nella parete di fondo, opposta all’unica finestra che dà luce all’ambiente, si apre una nicchia muraria con una decorazione in stucco a forma di conchiglia.

Nell’insieme architettonico l’edificio nella sua serena severità si riporta all’estetica propriamente funzionale di una sede ecclesiastica, quale luogo di studio e di formazione culturale e spirituale per gli aspiranti al sacerdozio, allontanati da ogni distrazione. Perciò si spoglia all’essenziale, in una semplicità lineare – propriamente claustrale – oltre che richiesta dalla destinazione, evidentemente imposta dalla committenza per economia di spesa. Condizioni pesantemente vincolanti per il progettista a poter esprimere quelle varietà inventive che in tutte le sue fabbriche si aprivano invece alla sobrietà delle rifiniture ornamentali che attingevano dall’immenso repertorio classico, cui l’architetto era avvezzo dedicarsi nella rappresentazione di un disegno armonico dai tenui preziosi effetti d’ombra che qui viceversa vengono sacrificati ad una austerità sostanziale, seppur recuperati in alcune ma limitate ambientazioni.